Vivendo non da esseri umani isolati ma da animali sociali, avendo costantemente a che fare con altre persone, la “mia vita non può non essere la tua” e questa comunione si attua nella comunicazione.
La prima forma di comunicazione, di condivisione e comunitarietà è il linguaggio, il primo interscambio è infatti una forma di linguaggio, verbale o meno, gestuale o mediata da altre forme di espressività, come quella che avviene mediante simboli.
La forma più immediata, universale e comprensibile di comunicazione è sicuramente il linguaggio verbale.
Dovremmo interpretare il nostro vivere all’interno della società come una sorta di agire comunicativo, ogni nostro agire è, infatti, volto a comunicare qualcosa a chi ci sta intorno, e persino quando siamo soli alla guida della nostra auto altri uomini comunicano con noi attraverso la segnaletica stradale.
Potremmo così definire il linguaggio, verbale o meno, come fondamentale coordinatore delle attività in vista di un fine, posto che ogni nostro fine è quello di agire, mediatamente o immediatamente, con l’altro.
Nel momento in cui noi comunichiamo qualcosa ad un altro abbiamo in mente quanto vogliamo esprimere, e il linguaggio verbale è la forma più immediata e universale per la socializzazione, ha un significato condiviso e all’interno di una stessa comunità di parlanti possiede un’interpretazione univoca perché retta da convenzioni.
Perché ciò sia possibile è necessario che ogni singolo individuo parlante abbia coscienza del concetto che vuole esprimere e del significato delle parole che sta utilizzando.
Tutto ciò appare immediato e molto chiaro, in realtà dovremmo sempre fare i conti con il fatto che ogni parola è passibile di uno slittamento di significato a seconda della persona e della sua esperienza.
Ciò non significa che se io dico “cane” a qualcuno può venire in mente che io stia parlando di 1Kg di pomodoro, ma ad esempio, facendo un cenno all’ambivalenza di certe parole se dico “leggenda” pronunciandola in maniera simile alla parola “legenda” posso intaccare l’intero corso di una conversazione.
È facile capire quanto possa divenir soggettivo ogni significato pensando al daltonico per il quale il verde ha in realtà l’apparenza di blu e il blu di verde.
Tutto questo non deve spaventarci o frastornarci ma unicamente deve farci comprendere come l’altro sia un’altra realtà, come diremmo oggi un altro mondo, simile e insieme differente.
La società di oggi ci spinge a far sì che ogni Io sia chiuso in se stesso e incapace di aprirsi all’altro, incapace quindi di comprendere o di volere intendere l’altro.
Ma abbiamo parlato del nostro vivere come di un agire comunicativo, di animali sociali, non di soggetti isolati.
Al giorno d’oggi ogni Io si serve dell’altro; questo viene usato come mezzo e non lo si vede invece come fine; ciò vale tanto per me che mi rivolgo all’altro, tanto per l’altro che si rivolge a me.
Ognuno guarda l’altro come mezzo per raggiungere un fine e non come un interlocutore da arricchire, amare o al quale, perché no, chiedere un arricchimento.
È necessario, invece, non soltanto scontrarsi, ma anche incontrarsi, imparare a fondere i nostri orizzonti, che io comprenda e mi faccia comprendere, vivere insieme, imparare ad amarsi, al di là di pregi e difetti, veder nella diversità di vedute una possibilità di incontro, di arricchimento, la possibilità di mutare il mio punto di vista, di ampliare il mio back ground.
Vivere insieme, co-vivere, con-vivere significa imparare a vedere l’altro non come un nemico minaccioso, ma come un altro come te, con le sue paure, le sue difficoltà e i suoi problemi.
Il miglior strumento per far ciò è il dialogo, visto come mezzo per l’azione comunicativa, non come strumento per raggiungere un fine che dovrebbe andare a proprio vantaggio, comprendendo che non siamo soggetti isolati ma una comunità di esseri umani.
La maieutica ha proprio questo fine: innescare un dialogo con l’intento di cominciare a vedere innanzitutto nell’altro un proprio simile con quelle sue particolarità che lo differenziano da me.
Nel cammino che prponiamo di intraprendere attraverso il dialogo si ha la possibilità di mettere a fuoco le proprie potenzialità, di imparare che si può apprendere molto anche su di sé nell’incontro con l’altro, che in questo incontro si produce conoscenza; si impara a prendere coscienza della propria esperienza e di come questa modifichi il nostro approccio alla realtà; si mette a fuoco il proprio punto di vista, i propri punti deboli e quelli di forza e si può imparare dall’altro come rafforzare i primi e insegnare come coltivare i secondi, in questo modo, con l’intento di fondare un vero e proprio laboratorio di ricerca e apprendimento, si può riconoscere la propria ricchezza e quella dell’altro, mettendosi costantemente in discussione, ascoltando e ascoltandosi, attendendo la nascita delle proprie risposta e di quelle altrui, individuando i punti di condivisione e quelli di dissenso e cercando di trovare, via via, nodi quanto più possibile condivisibili e universalizzabili.
In questo modo verranno alla luce in un interscambio continuo e alla pari, in cui sarà necessario non arroccarsi sulle proprie posizioni ma aprirsi e dare spazio alle visioni altrui, in un processo che è appunto quello maieutico, quello della levatrice che non può partorire al posto della madre ma può aiutarla a farlo, i propri interessi vitali, i propri bisogni, esigenze, sogni, paure e desideri, in una parola una maggiore conoscenza di sé, all’interno di un ambito di ricerca che verte sulla conoscenza della realtà e di sé.
Il metodo maieutico attraverso l’analisi di determinati temi, scelti di volta in volta, giunge ad una più piena percezione di sé e dell’altro come simile pur nella sua alterità.
Verranno così emergendo gli interessi vitali attraverso l’analisi della realtà che ci circonda che si svilupperà a partire da domande e risposte che si intrecceranno per formulare nuovi interrogativi e conquistare nuove conoscenze e nuovi punti di vista.
Le domande verteranno sui temi più noti e diremmo quasi più banali, ma che, proprio perché così continuamente a portata di mano, sono in realtà misconosciuti, dimenticati e sottovalutati.
Si giungerà a quella che definiremmo un’intuizione collettiva alla fine di ogni segmento dell’incontro stesso.
Si raggiungeranno così “soluzioni” condivise e condivisibili e si aprirà la strada ad un nuovo percorso di ricerca per gli incontri successivi.
CARLA SALA